In ricordo di Leone David, Giovanni, Amedeo, Anna, Leo, Cesare, Piero Terracina, Lidia Ascoli Terracina. Che i loro nomi siano di benedizione

«La memoria non è un patrimonio cristallizzato e nel ciclo continuo della vita, presente e passato sono strettamente uniti e legati. La memoria è anche proiettata verso il futuro e lo condiziona. Fare memoria del passato significa strapparlo all’oblio, serve ad impedire che il passato si ripeta, che si passi dall’ignoranza al pregiudizio e dal pregiudizio all’odio.»

Foto di Paolo Vezzoli, in: “La solitudine della memoria – Piero Terracina sopravvissuto alla Shoah” (Alessandro Monaci, Piero Vezzoli, 2018) https://www.ctrlmagazine.it/la-solitudine-della-memoria-piero-terracina-sopravvissuto-alla-shoah/

 

 

 

 

 

 

 

Piero (il più piccolo al centro) con i fratelli Leo, Anna e Cesare (Foto Archivio Famiglia Terracina)

 

«Giunse il 7 aprile 1944: la sera iniziava Pesah, la Pasqua ebraica, una festa molto importante per noi ebrei, perché è la festa della libertà. Noi celebriamo la Pasqua nello stesso modo, con lo stesso rituale, come si celebrava 2000 anni fa. Da allora non è cambiato niente: si legge l’Haggadà in ebraico (il rituale di Pesah), si fa il Seder, cioè la cena con il pane azzimo.
Quando quella mattina salimmo nell’appartamento dove stavano i miei genitori, come facevamo tutte le mattine, per lavarci, cambiare la biancheria, mangiare qualcosa, mio padre ci propose di celebrare quella sera Pesah insieme e noi accettammo con gioia. I miei fratelli si dettero da fare per preparare il pane azzimo con quel po’ di farina che avevamo e, la sera, ci ritrovammo tutti intorno alla tavola a recitare le preghiere per poi iniziare la cena pasquale. Non avevamo ancora iniziato a cenare quando bussarono alla porta: erano le SS. Andò ad aprire mia sorella e rientrò nella sala da pranzo sconvolta seguita da due SS armate come se andassero a un’azione di guerra, mentre un’altra era rimasta dinanzi la porta insieme con un fascista che li aveva accompagnati fin sulla porta di casa. Cominciarono subito a urlare parole in tedesco che nessuno capiva. Ma loro continuavano a urlare in tedesco finché, ad un certo punto, uno di loro cominciò a parlare in italiano e da questo capimmo che lo scopo di quelle urla in tedesco era solo quello di incuterci terrore. Poi questi consegnò a mio padre un foglio nel quale c’era scritto che in soli venti minuti dovevamo raccogliere tutte le cose di valore e tutto quello che ci poteva servire e lasciare l’appartamento. Mia sorella che era una ragazza sveglia e bellissima, davvero bellissima, cercò di intavolare una trattativa perché risparmiassero il nonno. Lui aveva ottantaquattro anni, era nato il 2 settembre 1860. E’ davvero una data lontana nel tempo! Nonno mi raccontava sempre, con tutti i particolari, quando nel 1870 arrivarono i soldati italiani a Roma, aprirono i cancelli del ghetto e gli ebrei poterono essere finalmente completamente liberi.
Così mia sorella disse alle SS di lasciare stare il nonno che certamente, al contrario di tutti noi più giovani, non avrebbe avuto la forza di lavorare. La risposta fu rabbiosa. Indicando la porta con la mano, una delle SS gridò: “Raus!” cioè: “Fuori!” Scendemmo le scale sorreggendo nonno. Al portone ci aspettava un’ambulanza ai cui lati c’era un’altra SS ed un altro fascista che era quello che ci aveva venduto. Lo riconobbe mia sorella. Infatti, quella mattina, quando era uscita per fare degli acquisti in vista della cena pasquale, era stata seguita da un ragazzo che aveva tentato un approccio. Del resto mia sorella era molto bella ed era una cosa normalissima che una bella ragazza fosse seguita da un ragazzo che tentava di rivolgerle la parola. Mia sorella non gli aveva dato molta importanza. Soltanto, siccome insisteva, l’aveva invitato ad allontanarsi. Infatti, non l’aveva più visto. Sicuramente l’aveva seguita per vedere dove stava perché evidentemente sapeva che eravamo ebrei e poi, la sera aveva accompagnato le SS ad arrestarci. Ora io mi domando spesso perché sia venuto, se è mai possibile che non abbia avuto paura che un giorno qualcuno di noi ritornando nella propria casa potesse riconoscerlo. Probabilmente non ha avuto paura per uno di questi due motivi: o sapeva perfettamente che nessuno di noi sarebbe tornato (della mia famiglia sono l’unico sopravvissuto) ed è la cosa più probabile, oppure era convinto che i nazifascisti avrebbero vinto la guerra. Ma questa era un’ipotesi assurda, perché le truppe italiane e tedesche si stavano ritirando da tutti i fronti: dall’Africa – prima l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia che erano colonie italiane, poi la Libia, anch’essa colonia italiana – dall’Italia meridionale e dal fronte russo dove era iniziata la controffensiva dell’esercito sovietico.
Comunque salimmo sull’ambulanza e dopo pochi minuti arrivammo al carcere di Regina Coeli.
Entrando in un carcere, si provano delle sensazioni indescrivibili, di angoscia, di paura, soprattutto quando si ha la coscienza di non aver commesso nessun reato. Fummo messi faccia al muro, davanti all’ufficio matricole con l’obbligo di non parlare. Uno alla volta venivamo fatti entrare in quella stanza. Venne il mio turno e una guardia carceraria doveva compilare la scheda di ingresso al carcere. Mi chiese nome, cognome, luogo e data di nascita, il colore degli occhi, dei capelli, se avevo qualche segno particolare e poi mi disse di imprimere l’impronta del dito indice della mano sinistra su un tampone d’inchiostro e portarlo sulla scheda. Esitai e allora un’altra guardia carceraria mi prese la mano, accompagnò l’indice sul tampone e poi sulla scheda. Per me fu un trauma e uscii da quella porta piangendo. Papà, che evidentemente aveva capito tutto, se ne accorse e ci disse rivolto a noi figli alcune parole che sono rimaste impresse nella mia memoria. Ci chiese perdono. Non gli ho mai chiesto di cosa dovessimo perdonarlo, non ho mai saputo che cosa mio padre, che era un uomo meraviglioso, un padre meraviglioso, intendesse. Poi aggiunse altre parole: “Ragazzi, possono accadere le cose più terribili, vi raccomando, però, siate uomini, non perdete mai la dignità di esseri umani!”»

Piero Terracina, Ricordi e riflessioni

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